Il 1968 fu l’anno della contestazione giovanile che aveva come obiettivo l’abbattimento dell’autorità. Di ogni tipo. Nel campo religioso veniva messa in discussione la gerarchia ecclesiastica. Da non trascurare però altre istanze di modernizzazione delle regole ecclesiastiche. Come il celibato sacerdotale.
La fase post-conciliare vedeva il vescovo mons. Antonio D’Erchia affrontare un battagliero don Vincenzo D’Aprile, «un patito del Concilio Vaticano II» come egli si proclamava. Tra la fine del 1969 e la prima metà del 1970 intendeva realizzare un sacerdozio solidale alla stregua di quello dell’Isolotto di don Mazzi. Un sacerdozio cioè più vicino ai poveri, sensibile alle loro necessità. Sosteneva, inoltre, l’adozione del celibato libero dei preti. Ma di fronte all’atteggiamento rigido ed intransigente del Vescovo i parrocchiani della chiesa del Carmine e simpatizzanti si raccolsero in comunità di preghiera.
Visto il persistere di don D’Aprile nei suoi intendimenti, D’Erchia gli intimò di dimettersi “volontariamente” e consegnare le chiavi della parrocchia. Egli scriveva, infatti, a don Vincenzo:
La tua presenza è motivo di grave e pubblico turbamento dell’unità ecclesiale, sia nell’ambito della stessa parrocchia, sia di riflesso nella comunità diocesana. […] Il tuo comportamento e le relative motivazioni ingenerano pericolosi equivoci circa i princìpi dottrinali ed i criteri del ministero pastorale, nonché sul dovere di obbedienza sacerdotale al Vescovo e di disciplina ecclesiastica.
E lo sospese dal suo ufficio di parroco, dalla predica e dalla confessione. Gli consentì di conservare “per ora” l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e di riprendere le sue funzioni sacerdotali solo dopo aver trascorso otto giorni di esercizi spirituali presso i padri passionisti di San Giovanni e San Paolo in Roma. Imposizione rifiutata.
Per l’eco che ebbe la vicenda, convennero a Conversano diversi organi di stampa nazionali come La Gazzetta del Mezzogiorno, l’Avanti, L’Espresso, Il Corriere della sera, Il Tempo, L’Unità, Paese sera. Il caso assunse toni politici con partiti e stampa di sinistra a favore di don Vincenzo e gli altri contro. Così scriveva, tra l’altro, del Vescovo l’Espresso del maggio 1970 a firma di Paolo Pavolini:
Distintosi infatti per aver rimosso dai lori incarichi ben 12 parroci, e per aver sostenuto… che non bisognava preoccuparsi dell’infanzia di coloro che erano sotto-alimentati poiché, ha detto testualmente, “I bambini negri vanno nel limbo”.
Secondo la Chiesa, infatti, per i bambini morti senza battesimo era previsto il limbo, ergo “i bambini negri vanno al limbo”. Che sarà abolito nel 2006 sotto il pontificato di S.S. Benedetto XVI. Egli afferma che:
Il Limbo non è stata mai una verità definita di fede… lascerei cadere questa che è sempre stata soltanto un’ipotesi teologica. Si trattava di una tesi secondaria a servizio d’una verità che è assolutamente primaria per la fede: l’importanza del battesimo… (Messori 2005: 154)
Dopo la presa di posizione intransigente del vescovo che chiuse la parrocchia e pretese la consegna delle “Temporalità”, montò l’ira dei sostenitori del prete che occuparono la Chiesa del Carmine. Fu inviato mons. Gallo, sempre schierato con i conservatori, a far valere i diritti della Curia, ma invano.
L’11 maggio ci fu un’infuocata assemblea nel Cinema Moderno con duri scontri verbali tra le parti avverse. Mons. Ruppi col suo intervento moderato, si buscò, coram populo, un insolente “Vaffa”, estensibile al Vescovo, dalla pasionaria comunista Marietta Dottore detta “Garibaldi”.
Le cose giunsero ad un punto tale che un gruppo di facinorosi si portò al palazzo vescovile intenzionati a passare a vie di fatto contro il prelato che si asserragliò in una stanza. Solo l’intervento di rinforzi dei carabinieri evitò che fosse malmenato. Una fitta sassaiola, nel pomeriggio, si riversò sulla sua auto. Furono 40 i denunciati dai carabinieri, accusati di violazione di domicilio, danneggiamento, adunata sediziosa. L’avviso fu inviato anche a Don Vincenzo nonostante la sua assenza da Conversano al verificarsi dei fatti. Un deprecabile episodio di violenza che gli alienò le simpatie. Fu la fine del suo movimento.
Italo Scarpa de Il Tempo il 15 maggio scrive, con azzeccata sintesi:
E con questo spirito, Conversano si immerge di nuovo nel suo suggestivo silenzio, ritorna alle sue occupazioni, lamenta i mali antichi, don Vincenzo si scontorna nel ricordo, resta solo il simbolo di una ribellione inutile, gratuita, proterva che si è alimentata all’ombra dell’antica miseria di questo centro agricolo dove un sottosegretario socialista [Giuseppe Di Vagno] e un presidente di amministrazione provinciale democristiano [Matteo Fantasia] si palleggiano equamente il diritto di dominio, come due feudatari.
A mons. D’Erchia giunsero messaggi di solidarietà da ogni parte d’Italia, da gente di tutte le estrazioni. In Conversano non risulta alcuna strada a lui intitolata nonostante la devozione dei cittadini per l’autorità ecclesiastica.
Il professore Pietro Sibilia, presidente del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, nel merito di tale episodio così si esprime: (Sibilia 2004: 29-32)
Nel caso di Don Vincenzo… mancò, quel dialogo tra un giovane prete e il suo Vescovo che si chiuse in una rigida difesa del Codice canonico. […] Purtroppo la “vicenda di don Vincenzo” procurò notevoli danni alla Diocesi di Conversano, il vescovo si chiuse in una “sorta di scostante isolamento”, che sfociò in scelte pastorali non sempre condivisibili. […] Negli anni ‘80 i dissidi tra il Movimento laureati e mons. D’Erchia si acuiscono notevolmente…
Non ci sono commenti, di la tua qui sotto!