“San Giuseppe il vecchierello/portava il fuoco nel mantello/ un miracolo che gli capitò/ fu che il mantello non si bruciò” Così recitava una vecchia filastrocca che si imparava a scuola.
È tradizione atavica che, la sera del 19 marzo, e fino a notte fonda o (per i più audaci!) Al sorgere del sole, gli abitanti di ciascun quartiere o comunità parrocchiale del Comune di Mola si riuniscono in un punto stabilito del rione o della zona in cui insiste la chiesa per dare vita a un grande falò, attorno a cui far festa tutti insieme tra cibo, musica, danze, sotto la coltre del cielo stellato. Quello dei falò di San Giuseppe è forse l’appuntamento rituale più antico fra quelli che accomunano le popolazioni del nostro Sud! A Mola, poi, è un vero e proprio rito giocoso, soprattutto per i ragazzi, andare alla ricerca di materiale da ardere, accatastandolo nella propria pira. Se si pensa, poi, che dopo la chiusura della pandemia, l’esigenza di fare gruppo, di stare insieme, si è fatta sentire insistente, viene ad essere giustificata la tendenza di tanti ad organizzarsi per (è il caso di dirlo!), riaccendere il fuoco della convivialità e dell’allegria.
Da cosa trae origine la tradizione dei falò?
Una vecchia leggenda racconta che durante la fuga in Egitto, la Sacra Famiglia si trovò a dover affrontare momenti di grande difficoltà. Una sera, dopo aver trovato un riparo di fortuna, il gelo stava diventando insopportabile. Giuseppe, per riscaldare Gesù Bambino, decise di andare a cercare della legna. Dopo tanto peregrinare, finalmente, il Santo riuscì a trovare una casa dove gli diedero del fuoco. Per evitare che le braci si spegnessero, lui le ripose sotto il suo mantello, che, miracolosamente, non prese fuoco. Un’altra storia racconta che il patrono dei poveri fosse andato, inutilmente, alla ricerca di qualche frasca per accendere un focherello. Non essendoci riuscito si tolse il mantello e gli diede fuoco. Sebbene per poco era, così, riuscito a scaldare il suo Bambino.
Probabilmente per ricordare leggende così, a Mola è usanza, nel giorno di San Giuseppe, darsi da fare per illuminare strade e spiazzali con un falò.
Le origini della festa
La corrispondenza tra questa ricorrenza e la data riservata dalla liturgia cristiana al Santo, sposo di Maria, non tragga però in inganno: la festa ha in realtà origini molto più remote, e affonda le radici nei riti arcaici di fertilità della Terra, celebrati da pastori e contadini, in prossimità dell’equinozio di primavera: essi accendevano grandi falò propiziatori per aggraziarsi le forze della natura in vista della primavera, stagione dei raccolti e simbolo di rinascita. E il fuoco stesso era visto come simbolo di nuova vita, nata dalle ceneri di quella passata. Il falò appartiene, infatti, all’usanza dei riti silvestri pagani, che, attraverso il rituale di purificazione e di consacrazione, volevano celebrare l’arrivo della primavera e invocare una buona annata per la raccolta nei campi.
Nella serata di San Giuseppe molte comunità molesi accendono i falò: un grande fuoco attorno al quale il paese si raduna e saluta la stagione fredda, dando il benvenuto alla primavera. Durante i falò di San Giuseppe molti sono soliti bruciare tra le fiamme un ramo d’ulivo, simbolo della pace e della cristianità, auspicando in una nuova stagione prospera e benedetta da Dio.
Cosa accade a Mola nelle settimane che precedono la festa?
Nella sua evoluzione contemporanea, la prassi della festa ha assunto, comunque, contorni più espressamente “ricreativi”. I preparativi iniziano molti giorni prima, quando i ragazzi del quartiere si spostano per le vie del paese, di solito spingendo una carriola in cui raccogliere casa per casa o ai margini di improvvisate discariche, la legna che servirà a costruire il falò.
L’ultimo giorno è riservato ai “grandi”, che si impegnano a costruire l’impalcatura del falò: la pira viene realizzata comunitariamente, accatastando ciocchi di legno, sterpaglia, rami d’ulivo appena potato, e tutto ciò che può servire a ravvivare il fuoco a intervalli regolari, tenendo accesa la fiamma fino a notte fonda.
Attorno al falò si balla al ritmo della musica popolare suonata da strumenti di improvvisati musicisti; si degustano bruschette, focacce, torte rustiche, olive, patate cotte sotto la cenere, mentre i più audaci osano anche con i panzerotti, per concludere, poi, con le famose zeppole di San Giuseppe, di rado accompagnate da bevande diverse e dal vino locale.
L’altezza raggiunta dai fuochi e la loro “capacità” di arrampicarsi verso il cielo, costituisce una discriminante pressoché oggettiva nella riuscita della festa. Se la memoria non mi tradisce, molti anni fa era in auge, addirittura, una sorta di contest: una gara tra i diversi rioni, con tanto di giuria preposta a valutare e premiare il fuoco migliore.
A fine nottata era tradizione che ognuno raccogliesse della brace e ne portasse un po’ a casa, aiutandosi con un badile, per rimpinguare il camino in segno di futura prosperità.
Cosa resta del fuoco di San Giuseppe?
Da ragazza, personalmente, non mi è mai capitato di partecipare alla costruzione di un falò, ma ho spesso fatto il tifo per quello del nostro quartiere. È gioco dei bambini andare in giro per la città a cercare e contarli. Perché anche quella era una gara da esibire il giorno successivo a scuola: il numero dei fuochi visti. Ma ho ancora vivido il ricordo dei falò visti e mi sono rimasti dentro molteplici particolari…
Mi è rimasto il significato più nobile della tradizione, legato alle emozioni che ognuno, a diverso titolo si è portato dentro. Mi è rimasta la cenere a ricordare che lì c’è stata una comunità, più o meno improvvisata, che si è stretta anche intorno ad alcune solitudini, offrendo il dono più bello che possa esistere: l’accoglienza.
Mi è rimasto il profumo dello stare insieme, divertendosi in modo genuino, attorno ad una luce. E il gusto di aver assaporato la bellezza di aver costruito qualcosa che resta nell’anima, perché è passato attraverso il benessere di tutti.
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